Ogni morte è la cosa più naturale del mondo, e insieme uno scandalo indigeribile.
Volevo stare vicino al tuo corpo, prima che chiudessero la bara.
Mi sono seduto di fianco al tuo volto bianco, mentre tuo padre faceva vedere le tue foto a qualcuno.
Raccontava che gli hai fatto una delle tue battutine sarcastiche anche la sera prima di scivolare nel coma.
Io volevo stare solo in silenzio, senza uno scopo preciso.
Ma è molto difficile restare in silenzio, amica mia. Specialmente davanti alla morte.
Mi sono ricordato del mio, di padre, quando è morta la Sufi, l’unico cane che ho avuto.
Come se mi avesse aspettato per esalare l’ultimo respiro, appena entrai in casa, la Sufi era lì accasciata sul pavimento, esausta.
Le misi una mana sulla pancia, come facevo sempre, stavolta a dirle: ecco, sono qui.
Lei spalancò gli occhi lucidi, che già erano in altro luogo. Ricordo la sua ultima espirazione.
Non ci fu contromovimento, nè ispiro: l’espiro fu totale, ampio, assoluto, senza ritorno.
Non avevo mai visto nulla del genere.
Un momento senza aggettivi: né brutto né bello, né triste né allegro, né commovente né tragico.
Il movimento complementare alla vita: quello era il movimento della morte.
Il mio cane mi stava facendo vedere qualcosa, qualcosa che sarebbe toccato anche a me.
Ero rapito da questo istante fuori dal tempo: insieme al mio dolore una presenza silenziosa e gentile, che conteneva e includeva il dolore stesso.
Sentii la voce di mio padre, che diceva qualcosa di fuori luogo, disattento, superficiale, disarmonico.
-Stai zitto – lo gelai.
Non sentiva che quello era un momento da consacrare al silenzio?
Non sentiva empatia e compassione per quel dolce essere che ci aveva accompagnato per dodici anni?
Lo odiai.
Capii dopo.
Non ce la faceva.
Il suo inconscio, il suo automatismo, lo faceva fuggire dal dolore.
Quel momento immenso era troppo per lui. Troppo doloroso, troppo grande, troppo ingestibile.
Doveva commentarlo, spiegarlo subito in qualche modo, ammortizzarlo con una banalità, semplificarlo con una frase fatta.
La morte fa uscire dalla mente. La morte fa saltare ogni idea, ogni opinione, tutta la struttura falsa che tentiamo di tenere insieme pagando un prezzo troppo alto.
Fanno così quasi tutti, suppongo.
Evitano la morte come evitano tutto ciò che non è spiegabile.
È difficile restare in silenzio, specialmente davanti alla morte.
Io ho avuto il desiderio di provarci, di starci.
All’inizio sofferenza, commozione e lacerazione. Scene di te, parole dette come un film senza lieto fine. Perdita. Sembra un pozzo senza fondo e senza senso.
C’è una spinta fortissima a contenere il dolore. Ho tutta la mia cultura contro, tutta la storia occidentale di secoli che dice: soffri, ma contieni il dolore, reprimilo, ragionalo, freddalo.
Io basta.
Contenere il dolore è anche contenere quello spazio di bellezza e meraviglia.
Dire bellezza e meraviglia è impreciso. È anche abisso, profondissima verticalità.
Passando per il dolore si apre questa ampiezza.
Toccarla è fare pace con lo sconvolgimento, trascendere il proprio modo consueto di pensare.
È tutto un parlare di morti, oggi.
Si fa la conta dei morti, se ne parla male, a sproposito, senza rispetto o profondità, li si usa per indurre e per manipolare.
Anche la statistica è un altro modo per evitare la realtà.
Quanti morti che parlano di morte, senza sapere nulla di morti e di morte, amica mia.
Se di morte bisogna ascoltare e parlare, allora tanto vale provare a guardarla più da vicino, spogliandomi un po’ di ciò che la cultura del mio tempo mi ha buttato addosso.
Davanti alla tua mano bianca, come quella di una statua, io sento che tu non sei lì, in quel corpo. Non sei più lì, ma quel corpo non eri tu neanche prima. Ora però è tutto un po’ più chiaro.
Tu eri la brezza, la spinta, la vibrazione che viveva quel corpo.
Tu non eri quel corpo ma ciò che lo animava.
E così è anche per me, quindi.
Dov’è ora ciò che lo animava? Dov’è ora ciò che mi anima? Ecco, questa è una domanda che vale davvero la pena, anche se non c’è risposta.
Niente di astratto o intellettuale, tutt’altro. Voglio sentire la cosa essenziale e più vera. Voglio sentire ancora la tua anima, la mia, quella di tutte le cose. Forse è per questo che sono qui in silenzio, vicino al tuo corpo che diventa marmoreo. Forse sono qui per sentire ancora, passando per il centro del dolore, quell’ampiezza senza confini, che anche tu hai meravigliosamente cercato in vita.
Anche la tua morte, come ogni morte, indica questo scandalo di cui non ci accorgiamo: io non sono il corpo, io non sono quello che penso di essere. Per questo è meglio tornare al conosciuto: le false certezze della mente e del mondo potrebbero crollare tutte di botto.
Ancora una volta ho parlato troppo, ti chiedo scusa.
Come vedi, anche io, non so stare in silenzio davanti alla morte.
GIORDANO