SIAMO PAZZI, ARRENDETEVI.

A distanza di un anno da “Out of the box”, mi chiedo ancora cosa esattamente mi abbia spinto a iniziare questa folle avventura e a fare tutte le settimane l’azione pescata. (Cos’è Out of the Box? Come è iniziato? Vedi qui)

Non ero comunque partito in questa impresa a digiuno. Avevo già alle mie spalle un decente curriculum di pratiche di gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso.

Ad esempio, diversi anni fa mi ero avventurato in un viaggio attorno al Mediterraneo regalando abbracci. Tutto era partito da un famoso video in cui un ragazzo australiano regalava abbracci gratis ai passanti. Anche io avevo voluto provare questa esperienza, e mi ero sentito così bene che avevo proposto a un amico di fare un viaggio di pace attraversando i paesi sul mar mediterraneo, regalando abbracci in luoghi particolari segnati da conflitti presenti o recenti, passando per l’ex Jugoslavia, la Turchia, la Siria, la Palestina, Israele, fino a Gerusalemme. Il viaggio diventò un progetto di pace, durò tre mesi, e fu un grande esperimento socio-psicologico-artistico, un laboratorio vivente di interculturalità e di vita, un flash-mob quotidiano, un’avventura non certo facile, decisamente folle, sicuramente preziosa. Al ritorno realizzammo un reading teatrale, io feci un breve video (Il Cuore ce l’abbiamo tutti allo stesso posto) e fummo anche invitati in alcune trasmissioni Rai.

Recentemente, in una giornata di abbracci liberi organizzata dagli amici de “Il Giardino sul Fiume” di Modena, ho voluto proporre anche l’Eye Contact Experiment.
Si trattava semplicemente di organizzare uno spazio con alcune sedie e cuscini per fare in modo che delle coppie di persone si trovassero una di fronte all’altra: in silenzio, ci si può guardare negli occhi e incontrarsi in quello stato di presenza. L’esperimento, che ha coinvolto già centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo, nasceva dalla domanda sullo stato dei contatti reali fra esseri umani.

A Modena alcuni commenti lasciati dai passanti che hanno preso parte all’esperimento sono stati:

“Ho avuto difficoltà a guardare negli occhi. Cercavo di entrare, ma ho avvertito un limite”
 “Non ho paura di guardare negli occhi, ma ho paura di guardarmi dentro”;
“Ma chi sei? Chi ha creato tutto questo?”

L’Eye Contact Experiment mi piacque molto: guardare negli occhi qualcuno non è facile all’inizio, ma basta connettersi col cuore e si può avvertire una spaziosità che si apre. Farlo in luogo pubblico può apparire certamente meno intimo, ma anche molto più intenso e rivoluzionario. È come dire all’intero universo: non ho paura, non ho paura di guardare dentro questo essere che ho di fronte; lascio che lui guardi dentro di me, e lascio che ognuno possa guardarmi per ciò che sono, anche qui, in questo luogo aperto.

Sono stato sempre attratto dai flash-mob, dagli happening teatrali, dalle manifestazioni  spontanee di arte di strada, dagli esperimenti artistici, dalle performance improvvisate. Mi piace l’evento che rompe l’abitudine addormentata e risveglia la coscienza alla meraviglia del presente.

Dafna Moscati, un’amica artista che si occupa di arte interattiva, nel luglio 2015 mi invitò a partecipare come performer al Festival Internazionale del Teatro in piazza a Sant’Arcangelo di Romagna, dove aveva organizzato il “gioco delle sedie”.
La performance avveniva in una piazza o in una via e consisteva semplicemente in cinque persone sedute su delle sedie in linea, come fossero una giuria. Di fronte alle cinque persone sedute c’era un sedia vuota, che veniva di volta in volta riempita da qualche passante.
Come si sarebbe sentito il passante? Cosa avrebbe pensato? Si sarebbe sentito giudicato? Apprezzato? Spaventato? Avrebbe parlato? E cosa avrebbero fatto i performers sulle cinque sedie? Sarebbero rimasti in silenzio? C’era un completo spazio all’incontro, senza atti prestabiliti. Qualcuno si sedeva e… qualcosa accadeva.

Chi se la sentiva, poteva poi scrivere le proprie impressioni su un quaderno. Le reazioni furono le più disparate: c’era chi non capiva, chi voleva interloquire, chi ringraziò per la bellezza, chi si commosse, chi si intristì, chi rimase in silenzio. Fondamentalmente, ognuno era ricondotto a se stesso, e la performance funzionava come una sorta di specchio. Non c’era un significato a priori, e in quella libertà ognuno vi trovava quello che già aveva dentro.

Ciò che personalmente mi interessava e di cui sentivo il bisogno era il recupero di una nuova dimensione del gioco e della leggerezza. Mentre parte della società sembrava chiudersi in se stessa, dando energia alla paura, all’odio, all’abitudine, alla monotonia, alla rassegnazione, io vedevo in questi esperimenti sociali e artistici la possibilità di uscire da alcune soffocanti e false zone di sicurezza. Era un modo di osservare la realtà da punti diversi, trasformarla e ricrearla continuamente. E soprattutto io mi sentivo più vivo, più reale, contattando una parte di me che spesso non esprimevo.

Anche il lavoro di Jodorowsky con gli atti psicomagici mi aveva da tempo ispirato. Alejandro Jodorowsky è un artista poliedrico che ha studiato con terapisti, guaritori e sciamani in diverse parti del mondo. Aveva toccato con mano come certe guarigioni avvenivano attraverso un atto fuori dalla logica comune che andava ad agire sull’inconscio.

Universo Jodorowsky
Conversazioni su vita, arte, psicomagia e altri imbrogli sacri

Jodoroswky proponeva all’interlocutore un’azione da realizzare apparentemente senza senso, ma che aveva un forte impatto emotivo che lo avrebbe portato e percepire il proprio problema e la propria realtà da un punto di vista diverso. Ad esempio, a una persona con problemi economici consigliò di incollare alle scarpe due monete, così che potesse sentire il suono dei soldi camminando; a un ragazzo orfano del padre, la cui figura severa e autoritaria continuava a bloccarlo, suggerì di bruciare una foto del padre, gettare le ceneri in un bicchiere di vino e berselo.

Psicomagia
Una terapia panica

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Gli atti psicomagici sono atti paradossali che possono scuotere dall’immobilità patologica e rompere schemi inconsci nei quali l’individuo è intrappolato. È agendo, e non solamente capendo con il pensiero, che, secondo Jodorowsky, possiamo dare un messaggio all’inconscio e attuare un cambiamento e una guarigione.

Anche per queste passate esperienze, incontri e suggestioni, decisi che valeva la pena giocare ad “Out of the box” per un anno.
Mi sentivo circondato da un mondo tristemente omologato e addormentato, e vidi nel gioco proposto da Noah un modo per rimanere vivo, un’arma di liberazione dall’oscurità e un gioco di risveglio.

Tratto da “OUT OF THE BOX: UN ANNO FUORI DALLA ZONA DI COMFORT

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