LIBERARSI DAL FARE COMPULSIVO: IL POTERE DEL NON-FARE

Parlare di non-fare in una società ossessionata dal fare è come dire durante il medioevo che la terra è rotonda. Mi aspetto quindi di essere messo al rogo, o quanto meno linciato pubblicamente.

Nelle nostre società tecno-consumiste il non-fare è più tabù di qualsiasi strana pratica sessuale, e più destabilizzante di una possibile invasione aliena del pianeta.
Quasi tutti sono terrorizzati dal non-fare. Bisogna riempire gli spazi, non stare con le mani in mano, non fermarsi, sforzarsi, pensare al futuro, pre-occuparsi.
Non importa cosa si fa, e soprattutto come lo si fa. Bisogna fare.

D’altra parte c’è sempre qualcosa da fare. C’è da lavorare, da riassettare, da dare l’aspirapolvere. da preparare la cena, da pensare a questo e a quell’altro, da guardare la tv, da andare a yoga, da fare del bene. E se non c’è niente da fare, bisogna pensare a fare qualcosa, pena la perdizione, la depressione, il senso di smarrimento, l’ansia, il giudizio nei propri confronti.
Chi decide di fermarsi dovrà fare i conti con un martellante senso di colpa che dice: “eh ma non fai abbastanza! Mentre tutti fanno, costruiscono, si adoperano, vivono la vita, tu non stai facendo niente!? Ma non ti vergogni?”
Così questa bella vocina ti fotte, non facendoti godere nemmeno di pochi attimi di respiro.
La compulsione a fare, l’impossibilità di fermarsi, non è una dote, ma una malattia. Una malattia spesso non riconosciuta come tale, anzi a volte spacciata come il giusto atteggiamento grintoso nei confronti della vita.

Il non-fare di cui parlo non significa passare la vita in coma vegetativo. Se stai leggendo queste parole significa che non sei una pianta e che non è che devi mummificarti.

Il non-fare è un modo di vivere, una ri-scoperta, una presenza, un potere personale naturale.

Si può essere in questo non-fare vivendo una vita dinamica e attiva, così come si può correre dalla mattina alla sera e fare milioni di cose senza contattare mai questo “non-fare”. La differenza è abissale.
Imparare ad accogliere il non-fare toglie quel peso psicologico abitudinario che crea una catena di ansia e preoccupazione.
Il non-fare di cui parlo si avvicina a quello che il taoismo chiama wu-wei, l’azione senza azione. Talmente semplice che è diventato difficile. E’ difficile perché la nostra mente, attraverso la spinta sociale e culturale dell’ambiente in cui viviamo, ha preso il sopravvento sui ritmi naturali del corpo e dell’essere.

Si può fare molto di più facendo meno. Ormai anche certe aziende se ne sono accorte e capiscono che si ottiene di più facendo lavorare meno i dipendenti mettendoli nelle condizioni di avere più spazi e più tempo. Ovviamente quando lavorano lo fanno con più gioia e rendono di più.
L’agricoltura naturale, ad esempio, si basa su questo non fare. Non c’è bisogno di sforzarsi, fertilizzare, potare, usare prodotti chimici e sradicare le erbe già presenti. Bisogna essere allegramente pigri. Ci vogliono alcuni accorgimenti, studio, cura e tanto ascolto.  Poi si tratta di lasciar fare alla Natura, accoglierla e indirizzarla invece che combatterla o renderla produttiva secondo la nostra idea. Chiedetelo ad esempio a Onorio Belussi, uno che con soli 3000 metri quadrati di terreno  ha dimostrato le potenzialità della coltivazione del non-fare ispirandosi agli insegnamenti di Masanobu Fukuoka.
I grandi terapeuti per esempio lavorano sul non-fare. Un famoso psicoterapeuta mi disse: “meno si fa, più si fa”. Intendeva dire che più ci si pone in un atteggiamento di ascolto e presenza, meno si ha bisogno di cercare mentalmente e ansiosamente le soluzioni e più si crea lo spazio per la guarigione.

Il non-fare potrebbe evitare un sacco di inutili drammi e portarci a una condizione di godimento della Vita.
E’ un non rompersi i coglioni, lasciars-si stare, concedersi spazio, essere ampi. Passa dall’ascolto di se stessi.
La cosa difficile non è il non-fare, ma è ascoltare e attraversare quei condizionamenti che ci obbligano a trascinarci in una costante ansia di fare, come se non fosse mai abbastanza.

Credo sia tutta una questione di fiducia.
Quando siamo persi nel fare è come se dovessimo costantemente combattere contro le situazioni e lottare contro la Natura.
Abbiamo paura che non riusciremo ad ottenere, che se non ci sforziamo andrà tutto a catafascio, che se ci fermiamo falliremo e perderemo il controllo sulla nostra vita.
Quando si ritrova una fiducia naturale dell’ordine naturale delle cose, possiamo lasciare andare il controllo. Ci fidiamo. Le cose non sono contro di noi. Possiamo fermarci, respirare, contemplare, passare anche del tempo senza per forza doverlo riempire.

L’obiezione più comune a questa idea del non-fare è quella che se ci lasciamo andare sarà tutto un casino, che questa è una bella filosofia da fricchettoni del disimpegno, un modo di fuggire da impegni e responsabilità. Secondo la mia esperienza sono più le persone che fuggono dalla realtà attraverso i problemi, gli impegni e le presunte responsabilità che quelli che hanno imparato la sottile arte del non-fare.

Lasciate pure che gli altri se la menino con gli impegni, le responsabilità, i carichi, i doveri reciproci. Magari vi diranno che c’è sempre qualcosa da fare e che siete dei pazzi irresponsabili, degli scansafatiche o dei fancazzisti. O forse voi lo direte a voi stessi, giudicandovi e giudicando chi non la pensa come voi. Come se il mondo senza di noi non funzionerebbe più.
Il mondo funzionerà anche senza di noi, forse anche meglio. Proprio per questo possiamo portarci meno pesi ed essere più giocosi e vitali. Ci valorizziamo proprio perché comprendiamo che non siamo il centro del mondo, non abbiamo tutto sulle spalle e l’intelligenza della Vita ci sostiene. Non si tratta di arrendersi ma di lasciar andare.
Facciamo quello che va fatto. Allevate pure figli, guadagnate soldi, lavorate, assistete gli anziani, mettete le mani nella merda, fate sport estremi. Non c’entra cosa si fa, ma da quale spazio si fanno le cose.

Il non-fare consente il puro godimento slegato dalla bramosia verso le cose.
La bellezza del contemplare, dell’accorgersi, del sentire il corpo, del gustare. Fare le cose per il gusto di farle, non perché bisogna. E se bisogna farle, si fanno senza appesantirle col nostro peso psicologico. Insegnare ai figli a fare le cose per il gusto di farle, senza centrifugarli già da piccoli con impegni da seguire affinché diventino adulti falsamente impegnati e nevrotici.

 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? E chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un’ora sola alla durata della sua vita? E perché siete così ansiosi per il vestire? Osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro (Vangelo di Matteo 6,25, 34).

Imparare a non-fare significa imparare a godere.
Chi è totalmente perso nel fare, anche se fa finta, non gode.
Riconoscere che c’è una Forza più grande, rimettere le nostre azioni a Lei.
Chi si ferma non è perduto, ma è salvato.

 

                                                                

 

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